C’è un’idea romantica che mi accarezza mentre ascolto le canzoni degli IANVA. Che esse contribuiscano a permeare la suggestione di un risveglio culturale fra le nuove generazioni, la rivalutazione di valori sacri e inalienabili quali il senso dell’onore, l’identità e la dignità dell’uomo. Non so se questa sia retorica (ma ben venga la retorica se essa si fa viatico di riflessioni e discussioni intelligenti), certo è che oggi riconoscersi in tali principi suona come una nota stridente rispetto allo stato attuale delle cose, un atteggiamento quantomeno reazionario agli occhi del borghese liberal-capitalista e delle masse troppo impegnate a soddisfare il proprio edonismo per guardare dentro se stesse e chiedersi dove stanno andando. Gli IANVA sono la risposta che aspettavo da tempo, la loro ventata di gioventù è un toccasana per chi scrive, suscita in me un sentimento d’ammirazione misto ad orgoglio che mi conforta di tanti anni dedicati ai movimenti d’avanguardia, alle controculture, ai suoni non conformi, agli ascolti in cui credevo… Gli IANVA, collettivo artistico raccolto attorno alla figura centrale di Mercy, ricominciano dall’Estetica per arrivare alla sua essenza. La loro musica pur bellissima non si adagia sugli allori della forma, ma attraverso di essa ridesta emozioni sopite e comunica concetti importanti narrando storie di vite esemplari. La rievocazione storica dell’impresa dannunziana di Fiume che il gruppo genovese attua in “Disobbedisco!” guarda in questa direzione. Gli autori la dipingono sullo sfondo di un dramma d’amore, quello fra Cesare Renzi, maggiore in forza durante l’Impresa, e la bella Elettra Stavros, affascinante chanteuse e pericolosa spia al servizio del nemico alle cui arti di seduzione neppure Renzi poté resistere. E’ una storia di passione e di morte in balia ai capricci del destino che i nostri mettono in scena come un musical d’altri tempi per assegnare slancio e spessore narrativo allo sviluppo dell’opera oltre che ricreare l’atmosfera appropriata, frutto di un ricercato lavoro di sintesi fra musica e teatro che riabilita la cultura del melodramma nella sua accezione più autentica. Gli IANVA danno lezione di stile ed impegno morale che fa loro onore, hanno ritrovato il senso primario nonché originario dell’arte, le motivazioni per le quali è lecito schierarsi e gridare con coscienza i propri ideali. Le sorti dell’Italia, della nostra cultura e delle nostre radici ne sono i nobilissimi moventi, la chiave di lettura più plausibile per un concept quale “Disobbedisco!”. Oggi tutto questo lo stiamo perdendo, ingoiato dalla spirale della dissoluzione mondialista che sta imperversando sotto i nostri occhi, colpito a morte dai falsi profeti progressisti che predicano la civiltà di un ‘tipo umano migliore’ secondo i piani perversi degli imperialismi economici moderni, l’istituzione di un nuovo ordine mondiale quale esatto contrario al sentimento di patria e al principio sovrano dell’autodeterminazione dei popoli. Oltre ad essere gli ideologi di un’arte dell’anima gli IANVA si pongono come i nuovi paladini di una rivoluzione conservatrice che pensa al passato per guardare al futuro (da cui il concetto di Archeofuturismo), sorta di nemesi nazionalpopolare silenziosa che il corso degli eventi ha forgiato come naturale forza avversa alle aberrazioni del nostro tempo, una voce fuori dal coro che fa quadrato per emergenza esistenziale ed arriva come un segnale d’allarme in pieno clima di caos e decadenza. Reclamiamo la Bellezza della nostra Terra, la Memoria delle nostre Stirpi, la nostra Anima, il nostro Nome, il nostro Spirito! Questo ci basta per avvertire un sobbalzo alle note di una semplice canzone.
A. Chimenti
1. IANVA è un progetto relativamente nuovo. Può tracciare una breve storia del gruppo? Cosa L’ha spinta, nel momento decisivo, a scegliere di ‘scendere in campo’?
Vorrei chiarire subito che IANVA non è un progetto del quale io sono l’unico deus-ex-machina, ma il punto d’incontro delle esperienze e dell’esigenza di creare qualcosa che fosse al tempo stesso “tradizionale” e inedito proprio di alcuni musicisti genovesi i cui background sono molto vari e, talvolta, ascrivibili a scene cosidette “estreme”. Dal Dark-Sound anni ‘70 al Black Metal, dal puro Prog al Funk-Rock-Disco, dall’orchestrale alla Dark-Ambient e all’Industrial. Per forza di cose ‘Disobbedisco!’ non assomiglia a nulla di questo. Tutto è nato un paio d’anni fa, quando Francesco La Rosa ed io iniziammo a sperimentare cercando di ottenere delle track di Neofolk marziale lavorando esclusivamente su sampling di musiche anni ‘60 e ‘70. In quel periodo, anche grazie a reiterati ascolti sui quali ci aveva indirizzato Stefania, realizzammo che l’arte della soundtrack aveva raggiunto in quegli anni e in Italia livelli mai più eguagliati in nessuna parte del mondo. Eravamo impressionati dalla perfezione formale e dalla profondità evocativa di queste musiche. In esse s’intersecavano il substrato colto e l’appeal popolare, la funzionalità, ma anche la sperimentazione. Ben presto ci fu chiara la suggestione che questi suoni potevano suscitare se assemblati in loop monotoni su basi quadrate e potenti. Il risultato era qualcosa di molto lirico ed emotivo, ma anche implacabile e minaccioso. A quel punto decidemmo che un sound del genere meritava di essere ricercato suonando sul serio. Nello stesso periodo collaboravo con Argento che stava registrando materiale non Black Metal per una compilation post-industriale. Il tema era quello dell’Impresa Dannunziana di Fiume, argomento che entrambi stavamo approfondendo, lui per ragioni universitarie, io per diletto. Una notte, mentre stavo leggendo lo strano memoriale di un reduce e testimone oculare di incredibili fatti avvenuti a Fiume durante la Reggenza, tenevo in sottofondo le nostre track vintage-marziali: era tutto fin troppo perfetto. Di colpo il concept iniziò a materializzarsi e l’indomani stesso ci mettemmo al lavoro. Gli altri si aggiunsero poco dopo. Va da sé che senza il contributo di ogni singolo membro il risultato non sarebbe stato lo stesso.
2. L’intero Disobbedisco! è dedicato a una avventura
umana e a certi eventi storici. Oppure, per essere forse più esaustivi,
si può dire che l’opera intende scavare nel solco lungo il quale
le vicende umane incontrano, fatalmente, lo scorrere della Storia. Può
gettare un po’ di luce sui casi raccontati e sugli attori che la severa
ma imprevedibile regia del Destino ha disposto sulla scena? Smuovendo quella
terra ritiene Lei di aver trovato una radice?
Non ho molti dubbi a riguardo. Solo che certe radici, sprofondate per forza di cose nel limo di quelle esperienze intime rispetto alle quali non abbiamo più tempo a sufficienza per dedicarvi attenzione, sono da tempo disabilitate a produrre germogli di ordine ideologico o tattico-operativo. Funzionano, invece, molto bene per suggerire linee di condotta individuale totalmente difformi rispetto allo spirito del nostro tempo. Una difformità che non si traduce necessariamente in un collidere velleitario e, sostanzialmente, funzionale al meccanismo, ma in un qualcosa di difficilmente descrivibile. Qualcosa che riguarda il senso della DIGNITA’, il grande desaparecido dell’Occidente contemporaneo. Debbo dire sinceramente che nutro disprezzo per tutti coloro, a Destra come a Sinistra, sia pure con opposte valutazioni di ordine etico, che alla voce Dignità sovrappongono immagini di potenza, di autorità, di protervia. Oppure di ordinario decoro borghese, di rispettabilità rispetto ai modelli sociali vigenti, quali essi siano. La Dignità che muove i nostri personaggi è di stampo più semplice e arcaico, ma è anche, a tutt’oggi, l’unica degna di tal nome. L’agire da galantuomini rispetto alle questioni marginali o ai grandi eventi storici è solo una questione di proporzioni in quanto negli uomini ancora integri l’onorabilità personale e il senso della giustizia, la lealtà, il rispetto dell’avversario, se di pari statura, sono stati per secoli il valore fondamentale, l’unità di calcolo da cui evincere il definitivo giudizio di valore. I nostri personaggi sono mossi da questo propellente: un sentire, come si diceva, arcaico che informa di sé il tendere con l’azione ad un futuro differente. La vicenda si snoda dalla vigilia della grande offensiva sul Piave dell’Ottobre del 1918, passa attraverso la convulsa stagione post-bellica dove si chiarificano i nuovi assetti di potere mondiale, la clamorosa impresa di D’Annunzio con tutto il suo carico di idealismo utopico, fino ai giorni della “normalizzazione” della crisi attraverso l’azione di forza governativa. Naturalmente i nostri eroi pagano con la vita o la rovina il fio della loro “diversità”, eccezion fatta per il narratore che avrà lunga vita, ma che noi, almeno nel contesto del disco, abbiamo relegato sostanzialmente sullo sfondo dando voce a quelli che sono, in effetti, i veri protagonisti: il Magg. Cesare Renzi e la letale chanteuse-spia Elettra Stavros. Uniche eccezioni: il pezzo “Di Nuovo In Armi!” dove il quasi imberbe Tenente Laurago narra dell’esaltante sensazione di immortalità da lui provata all’atto della presa della “Città Di Vita” e “Traditi” dove lo stesso D’Annunzio prepara l’ultimo struggente discorso prima dell’addio. Per quest’ultimo ci siamo avvalsi della prestigiosa collaborazione di Andrea Chimenti nella parte di un esausto, disilluso Comandante.
3. Devo ammettere che la Vostra musica ha la capacità di ‘stordire’
l’ascoltatore, riesce a fargli ‘perdere la testa’ trascinandolo
in un’altra epoca, rendendolo quasi compagno dei personaggi che si muovono
nel mondo da IANVA evocato. Si renderà conto: non è cosa di
poco valore, ma opera virtuosa.
Diciamo che sto iniziando a realizzare che quello che era l’obiettivo principale, fondante direi, dell’intero progetto è stato con ogni probabilità centrato. Sia per quanto concerne l’aspetto della messa in scena sul piano dei panorami sonori, sia per le corde emozionali che ci eravamo prefissati di far vibrare. Visto sotto questa angolazione, il progetto IANVA costituisce il primo vero centro della mia personale vicenda creativa. Un ascoltatore mi ha fornito una definizione che mi piace riportare: musica da vedere. L’idea di base era quella di immergere l’ascoltatore in un flusso narrativo paragonabile alla dimensione del musical, dell’opera o meglio ancora dell’operetta drammatica, coeva peraltro agli eventi narrati. Si tratta di un lavoro più complesso rispetto alla già non facile ricetta del disco-concept. Intanto perché è indispensabile umanizzare e rendere credibili dei personaggi che, limitati a esistere nello spazio ristretto di una canzone, necessiterebbero di molte meno cure per non risultare improbabili. In secondo luogo, perché personaggi divenuti plausibili vanno immersi in uno spazio fisico altrettanto credibile. Ovviamente, trattandosi di musica e non di teatro, occorre che il suono diventi, all’occorrenza, scenografico. Ma quello che più conta, e che non cessa di meravigliarci, è l’effetto di piccolo terremoto emotivo che il nostro lavoro ha provocato in molti ascoltatori: sensazioni di sbalzo temporale, una sintonia quasi medianica con lo spirito di quei giorni, una commozione e una partecipazione inspiegabile per i destini di quelle persone e per una causa lontana nel tempo, senza alcuna rilevanza nel mondo presente. Se poi tutto questo possa essere definito virtuoso non ho certezze. L’unica cosa certa è che abbiamo eliminato spietatamente ogni tentazione all’essere approssimativi. Al giorno d’oggi si fa una gran confusione tra i concetti di spontaneità e improvvisazione, che sono stati addirittura nobilitati dalla Storia, e quello di approssimazione che, al contrario, è stato quasi sempre disonesto.
4. Qualcuno potrebbe, elargendoVi una considerazione critica forse eccessivamente
polemica, accusarVi di esaltare un ‘tempo sconvolto’ della Storia.
Segnalare in Voi la presenza di una certa insensibilità. Come reagirebbe
alla stretta di una simile sintesi?
Potrei
rispondere in un’infinità di maniere. Un simile modo di argomentare
che, detto per inciso, costituisce praticamente la regola negli ultimi anni,
è in realtà talmente banalizzante, irragionevole e isteroide
da andare in frantumi a fronte di qualunque seria obiezione.
Intanto considererei che il sentimento di Pietas che permea l’opera
risulta così evidente, talmente percepibile da fornirmi, per via indiretta,
una prima radiografia di questo ipotetico interlocutore. Infatti i casi si
ridurrebbero a due: o si tratterebbe di un provocatore in malafede o, peggio,
di un soggetto talmente insensibile e refrattario a empatizzare con le altrui
sofferenze e passioni da risultare, paradossalmente, quanto di meno qualificato
possa esistere per muovere qualsivoglia obiezione di ordine “umanitario”.
Esiste un pregiudizio assai radicato che conferisce a priori la patente di
custodi dell’umanitarietà a una pletora di personaggi aridi,
ignoranti e ottusi. Gente che non ha mai avuto bisogno di uscire dal pattern
della replicazione automatica di luoghi comuni politicamente corretti perché
questi, da soli, gli sono regolarmente valsi per essere ascritti d’ufficio
nella categoria degli aventi ragione. Molti di costoro, alla conoscenza diretta,
si rivelano per quelli che sono: squaletti di smisurata ambizione, privi congenitamente
di ogni sensibilità artistica e senso dello humor, egoisti e insensibili
e pur tuttavia propagatori di un “pecorismo nazareno” che in bocca
a loro suona del tutto grottesco.
Io credo che mi divertirei a ribattere loro che i miei personaggi non li glorifico
e nemmeno li condanno, ma, francamente, li rimpiango. Mi manca quel tipo di
modulo umano e sono persuaso che la sua estinzione sia stata una sciagura
per l’Umanità. Tutto il nostro lavoro non ha nulla a che vedere
con certe apologie belliche, ebbre di sangue e di strage, ma focalizza le
intime miserie, le patetiche debolezze, ma anche il tratto di fierezza e le
irripetibili grandezze di una generazione ancora capace di votarsi a imprese
che trascendevano il personale.
5. “Sembra quasi impossibile, ora/Si credesse davvero la Terra/Luogo migliorabile ancora…”. È possibile, è lecito sperare in un miglioramento della Terra? E l’uomo, secondo Lei, può essere migliorato? Può cercare di “rendersi simile alla divinità”, come appunta l’insegnamento platonico? Credo siano domande che è doveroso considerare, leggendo la Vostra opera.
Il
vero problema dell’oggi è un altro, a mio avviso. Certo, risulta
strettamente correlato con il quesito da Lei posto. Non credo sia un obbiettivo
perseguibile e forse, a questo punto, nemmeno immediatamente utile, l’anelito
alla similitudine divina da parte di un’Umanità ormai incapace
di similitudine anche rispetto a sé stessa.
E’ convinzione diffusa che l’uomo contemporaneo, per quanto lontano
dalla perfezione, sia indiscutibilmente migliore dei suoi predecessori. Indubbiamente
godiamo di maggiori libertà: di espressione, di movimento, di religione,
di condotta. Esiste maggiore movimentazione sociale, almeno sulla carta, e
ci siamo lasciati alle spalle un rilevante carico di superstizioni, pregiudizi
e limitazioni oggettive. Inoltre, sempre sulla carta, si considera delittuosa
la riduzione in schiavitù e addirittura aberranti certe logiche, diciamo
spicce, finalizzate alla risoluzione delle inevitabili conflittualità.
In realtà il carico genetico di angoscia e distruttività proprie
della nostra specie, non avendo più, figurativamente, referenti in
cielo si è semplicemente secolarizzato e si è andato a rifugiare
sotto la coltre di una neo-morale laico-liberista. Questa, oltre a imporre
nuove e meno manomissibili condotte forzate alle nostre esistenze, ha provveduto,
di fatto, a ottimizzare, secondo una prassi mutuata dall’economicismo
e dal materialismo scientifico, questa tendenza alla sopraffazione insita
nel nostro bagaglio evolutivo. Oggi le guerre si continuano a fare, ma si
decentrano e si spettacolarizzano. Avendo cura di fabbricare un indispensabile
alibi “umanitario”, per quanto risibile esso sia. Anche le conclamate
libertà prima citate, giammai sottoposte a un serio vaglio di natura
qualitativa, appaiono sempre più erose. Ma alla solita vecchia ratio
della repressione si somma una pressione inversa esercitata dall’industria
culturale, mass-mediologica e di costume. Questa è tutta protesa a
rimuovere dalla nostra impalcatura antropologica tutta una serie di attributi:
il senso dell’onorabilità, della dignità, del sentimento
comunitario. La giusta attitudine a reagire ai soprusi, a non essere plasmabili
nelle condotte e nelle opinioni fino al punto di non saper neppure più
salvaguardare le nostre incolumità, i nostri affetti, i nostri beni.
Esiste una realtà che ci parla di nuove schiavitù, di commerci
abbietti, di equilibri millenari, paesaggistici, artistici, ambientali disintegrati.
E su tutto si scorge una catastrofe relazionale ormai non più sanabile.
L’insegnamento platonico va preservato in quanto patrimonio umano potenzialmente
salvifico in una prospettiva post-catastrofica, ma in una fase storica come
quella in atto, in cui le élites culturali sono, salvo sporadiche e
sempre più oscurate eccezioni, esclusivamente organiche al meccanismo
globale, non credo possa fornire alcuna prassi operativa praticabile.
Diverso è il discorso se rapportato alla sfera individuale.
6. La trama di tutta la narrazione è intessuta di un erotismo fiero,
audace, schietto; una pulsione che tende a violare i vincoli borghesi che
incatenano le esistenze. Tale connotazione mi ha ricordato la concezione dell’eros
che anima le iniziative editoriali de Le
Librette di Controra (cfr. Anna K. Valerio, Contro la P. Melissa.
Elogio e invettiva, Padova, 2005). Era nei Suoi intendimenti colorare
di un rosso così vivo, così intenso, le vicende dei protagonisti?
Questo
è un altro punto fondamentale. Una certa declinazione, a un tempo cupa
e fiammeggiante, del concetto di Passione, così primordiale eppure
capace di condurre l’Uomo su vette sublimi, è stata non solo
deliberatamente ricercata in tutte le fasi del nostro lavoro, ma anche, a
un dato momento, subita. Di fatto c’era come l’impressione che
quanto stavamo rievocando era una sorta di larva psichica, un sentito generazionale
di immane portata con cui noi ci eravamo sintonizzati e che ora chiedeva di
essere ascoltato. Fantasie, certo, ma di essenza desueta.
Diciamocelo: la contemporaneità ha un tratto indubbiamente femmineo,
ma anche del tutto frigido. Per questo produce degli immaginari che, pur pretendendosi
educativi, sono letteralmente dei congegni di castrazione. Oggi un anti-eroe
non può che essere rappresentato nella sua accezione abbietta, si stravede
per i cinici, ma di quelli codardi che sanno stare al proprio posto, ci si
lascia affascinare da pseudo-ribelli dai modi smunti o, in alternativa, sommamente
beceri purchè forniti di tutti i gadget neoglobali del caso. Da “l’altra
metà del cielo” siamo sommersi di bambole mentecatte, di piccole
arriviste siliconate, di vedettine pseudo-letterarie buone per far masturbare
i matricoloni del DAMS. Io penso che la più bieca tenutaria di bordello
di cent’anni fa fosse, in fondo, più onorabile di questi bei
campioni di femminilità contemporanea.
Gli Uomini e le Donne che attraversano la vicenda da noi narrata, invece,
sono refrattari alla meschineria, alla bassezza, al sotterfugio da quattro
soldi, anzi ne paiono naturalmente immuni. Così come l’efflorescenza
insurrezionale risulta dettata esclusivamente da sentimenti passionali così
la passione sensuale si carica di significati profondi, viscerali e, per molti
versi, atavici. Eppure non si rinuncia al tratto di eleganza, a un’asciutta
e un po’ sorniona cavalleria. Si mantengono volutamente lontanissimi
i tratti comportamentali maschio-femmina godendo del fremito supremo che solo
un fondo di definitiva inconoscibilità può assicurare. Ma ci
si rispetta e si è complici in una comune sfida al mondo.
7. Ma la tonalità di quel rosso è anche cupa. Mi riferisco,
in particolare, alle riflessioni comprese in Per non dormire: “Sentire
che la Causa si fa pretesto per braccare una personale preda”. Sembra
apparire qui una facies notturna, pare emergere un carattere decadente
dell’eros. La passione ‘distrae’. È possibile, secondo
Lei, vivere il sentimento con uno slancio davvero eroico, perfettamente integrato
in una forza che tende all’alto, anzi: in modo che costituisca esso
stesso la vitalità leonina di quella tensione?
Sicuramente, ma dipende da una serie di fattori che, molto spesso, divergono sensibilmente o del tutto dall’esecizio della volontà. Questi fattori sono: la contingenza storica e quella dell’immediato, le casualità degli eventi, il temperamento o la formazione a determinati valori da parte dei soggetti coinvolti e via dicendo. Nella società di quel tempo l’Eros, quello dell’immaginario collettivo, era costituito da una serie decrescente di declinazioni, dal colto al popolare, dell’armamentario decadente. Su cui però si era andato innestando un fattore scaturito dalla modernizzazione dei costumi, in particolare di quello femminile, in atto nella società post-bellica. La donna irragiungibile e “peccaminosa” della Belle Epoque, quella che non ci si sarebbe mai abbassati a sposare ma per cui, spesso, ci si sparava in testa era stata soppiantata da una figura differente. Parimenti scostumata, secondo l’allora ancor corrente giudizio sulle donne “libere”, spesso residualmente circondata di paccotiglia dannunziana o esotizzante, ma dai tratti temperamentali più forti e asciutti, di un intellettualismo più tagliente, percorso da una vena sarcastica. Mata Hari era una donna di normale intelligenza e di non eccezionale scaltrezza, ma per qualche tempo tenne letteralmente per le gonadi uno Stato Maggiore. L’impatto sulla psicologia maschile esercitato dall’irruzione sulla scena di questi nuovi archetipi muliebri fu potente, complici alcuni catalizzatori non trascurabili quali la diffusione della stampa scandalistica, quella del cinematografo e quant’altro. Nella nostra rappresentazione, a questo modello di Donna Assoluta si contrappone un corrispettivo maschile, anch’egli espressione di quel presente, la cui evidenza “leonina” si stempera in nuovi disincanti e in caustiche amarezze e in cui il famoso “passo di corsa” marinettiano acquisisce la valenza di un lugubre rictus. Eppure il nostro personaggio, tiene fede alla parola data poiché, per un ufficiale degno, sarebbe impensabile fare altrimenti. Il tormento interiore che lo attanaglia è definitivamente di natura bassoventrale, ma una certa rocciosità connaturata in questo tipo di uomini, più che un pronunciamento idealistico, è quella che gli fa scorgere la natura “egoistica” e auto-conservativa della passione sensuale. La ricerca dell’appagamento, il vagheggiamento della costruzione di una realtà futura dove prolungarlo sono, di regola, contro-indicati laddove vi è la necessità di un’adesione totale a una Causa. Tuttavia il prolungato stato di esaltazione, il doping biochimico che rende instancabili e insuffla una sensazione di immortalità e che è proprio dell’insorgere dell’innamoramento predispone, tra le altre cose, anche ad affrontare il pericolo o la morte con una sorta di primeva, paurosa, beatitudine. Di fatto chi nutre una violenta passione sensuale esce, psicologicamente parlando, dal dominio del Tempo e, dunque, dalla percezione della propria finitezza.
8. La figura dell’Esteta in armi si muove tra l’esaltazione del
Blut e la riprovazione del Geist (qui inteso come pallida,
esangue astrazione). Tra l’adesione all’ebbrezza del movimento
e il diniego della sclerosi del regime. Può riuscire, questa figura,
a tradurre correttamente nella Storia la propria idealità?
Indubbiamente si, ma credo unicamente sotto l’aspetto di un magistero estetico, avendo cura di considerare che l’Azione stessa diventa magistero estetico quando la consonanza rispetto agli archetipi eroici di colui che lo incarna, si storicizza. Si tratta di una questione non di poco conto dal momento che la Storia, è noto, è fatta in larghissima parte da soggetti pragmatici, da infaticabili tessitori un po’ grigi e anonimi, da duttili diplomatici e scaltri amministratori. Tipologie umane costituzionalmente indifferenti a qualsivoglia tentazione estetica e, solitamente, assai poco versati per l’azione pura. Eppure ogni Cavour necessita del suo Garibaldi. I grandi movimenti, l’adesione incondizionata di uomini in armi a un progetto non si conquistano con il linguaggio oscuro della realpolitik, ma con il carisma, con quel certo numinoso prestigio di cui si ammanta una figura che, con incomparabile stile, rende unica la sua vita e poi la mette in gioco senza nessun apparente timore di perderla. Figure simili non sono state infrequenti nella Storia, ma raramente si sono dimostrate dotate anche di strumenti adeguati a gestire la contingenza una volta esaurita la fiammata del puro atto di volontà. Da questo punto di vista potremmo dire che D’Annunzio è una sorta di incarnazione definitiva. Il che serve anche a spiegare come un vecchio divenuto inoffensivo, un monumento semovente dedito a tristi débauches con un piede nella fossa, continuasse a costituire una preoccupazione per Mussolini. D’Annunzio era l’anti-Mussolini per il solo fatto di continuare a esistere quale detentore del prototipo che aveva assicurato al Fascismo la presa sulle piazze: l’estetizzazione della politica. Mancava però di quel pragmatismo e di quella dose di cinismo e brutalità indispensabili in ogni scalata al potere che si rispetti. Era il modulo angelico di una ritualità inevitabilmente involgarita dalla sua contiguità con gli aspetti pratici che la gestione del potere comporta. Si capisce il cruccio di un dittatore che, per quanto al culmine del suo prestigio, debba fare i conti con un’ombra la cui evidenza è di ordine mitologico.
9. L’Ardito è, a mio modesto parere, presenza terribilmente moderna.
È figura faustiana derivata da quella costrizione individualistica
che forse intervenne già prima dell’epoca moderna. È proficuo,
secondo Lei, riconoscere nell’Ardito il protagonista di un movimento
contro-decadente?
Mi pare un’analisi perfetta. Ma l’Arditismo è un fenomeno che, idealmente, non accantona il decadentismo, ma lo ripone in attesa di tempi migliori quando potrà essere riestratto e re-impiegato a scopo ludico. Non vi è alcuna connotazione austerizzante nel fenomeno, al contrario, l’immaginario decadente informa di sé un’enorme massa circolante di letteratura popolare che è compagna di viaggio dell’ardito-tipo. Ma manca del tutto lo spleen fin-de-siècle, la paralisi del dubbio, il languore nobiliare un po’ malaticcio. Curiosamente gli orpelli ora lussuriosi, ora funerei del Decadentismo “estremo” si coniugano alla smargiassa genialità e all’attitudine ipercinetica della sintesi futurista dando luogo a un’ibridazione estetica che metterà il mondo di fronte alla possibilità dell’Azione come opera d’arte. Il Faustismo proprio dell’ardito rappresenta altresì un sostanziale cortocircuito rispetto alla sua originaria sorgente costituita dal Romanticismo. Accantonata la vocazione esoterica, emerge una sorta di Faustismo collettivo che, pur proiettato al futuro, pare alimentarsi di forze di natura ancora più primordiale. Da questo punto di vista l’Ardito è una figura esemplare della modernità nel senso stretto del termine, al passo di corsa dell’oplita nella vertiginosa accelerazione primo-novecentesca, ma senza alcuna possibilità di esistere nel mondo contemporaneo che dalla modernità è da poco uscito. Il parossismo di velocità imposto dalla tecno-scienza, oggi, preclude ogni altra possibilità che non sia quella di un obbligatorio inseguimento con il cuore in gola.
10. E le Avanguardie Storiche? Secondo Lei, sono servite a qualcosa? Quale
è stato il loro rilievo in un’ottica di piena affermazione della
Bellezza? Non avranno forse solo apportato materiale utile a riempire quei
musei dove oggi il pubblico borghese si dedica all’esercizio della ‘contemplazione’
del passato?
E’ fin troppo facile ironizzare su quell’Arte che voleva bruciare i musei e uccidere il chiaro di luna e poi nei musei c’è finita, al chiaro di lampade alogene, magari in ambienti allestiti da architetti di gusto neo-proletario. Alla fin fine l’Arte moderna continua a esercitare la sua funzione principale che è quella di farci assistere a degli spettacoli istruttivi. La lezione più rilevante che ci ha impartito negli ultimi decenni è quella che, dopotutto, esisteva in predicato qualcosa di sensibilmente peggiore della sensibilità borghese che almeno previlegiava il decoro e l’approccio posato. Il termine “contemplazione” che Lei ha usato, a mio parere, mal si addice alla fruizione contemporanea dell’esposizione d’Arte. Oggi, nel linguaggio corrente, si parla di “eventi”, ovvero di qualcosa in cui importa esserci, specie se ci sono nei paraggi delle telecamere accese. Il filo con il passato si è interrotto proprio perché è venuta meno la capacità di contemplarlo. Oggi si “vive” l’evento, si è ossessionati dalle situazioni non da ciò che vi si potrà vedere. Un’avidità di esperienze in realtà piuttosto floscia, ma sempre su toni isterici, con il tempo contato, l’occhio distratto, la mente altrove e l’orecchio teso a distinguere tra le varie suonerie dei cellulari. Paradossale, ma l’Arte espressa dalle avanguardie del ‘900 non poteva ritrovarsi un pubblico meno appropriato di quello che ha contribuito a creare. L’esposizione del Cenacolo Leonardesco restaurato ha mostrato, tra precauzioni da X-Files e file chilometriche di lettori di rotocalchi, spettatori di reality, piccoli rampantelli di feroce ignoranza, una significativa anticipazione del destino che attende la nostra civiltà. Io, per assurdo, credo che le semplici, devote, stuporose plebi del medioevo, per riempire gli occhi delle quali l’Arte occidentale espresse ciò che conosciamo, sarebbero parimenti migliori spettatrici anche per le Arti del ‘900 che, spesso, hanno vissuto di equilibri e silenzi, di comprensioni istintuali e atavistiche. Cose scomparse in tempi recentissimi. I molti detrattori dell’Arte del ‘900 che popolano gli ambienti tradizionalisti farebbero bene a mettersi in testa che la tipologia umana che l’ha prodotta non è meno perduta di quella che produsse la Cattedrale di Colonia.
11. È incauto leggere in Disobbedisco! una critica del mondo
moderno? Crede che quella in cui viviamo sia un’epoca di decadenza?
Vi siete chiesti se è possibile far fronte al così detto nichilismo,
fenomeno (di portata cosmica? metafisica?) di cui si fa un gran parlare? Con
formula efficace: si può “vivere nella decadenza senza appartenerle”?
Il
mondo moderno è, tra tutti quelli che l’hanno preceduto, di certo
il primo in cui la facoltà di critica può essere esercitata
senza apparenti limiti. Esistono tuttavia dei tabù, ma ragionevolmente
pochi, e la sostanziale sensazione che un livello anche molto elevato di critica
sia oggi tollerato per il semplice fatto che ogni critica è, in sé,
del tutto irrilevante.
La mia attività è sicuramente ascrivibile all’ala del
dissenso e non ho alcuna remora nel riconoscerlo. Ma sono anche consapevole
che il materiale che manipolo è tutt’altro che esplosivo e che
i rischi in cui incorro sono di conseguenza molto modesti. Il fatto è
che il mondo in cui viviamo è saldamente in mano a élites economiche
e tecno-scientifiche e la loro stessa incontrastata leadership è la
prova evidente che la guerra contro le Idee è già stata vinta.
Tanto per esemplificare: un buon “tecnico” dissidente come un
giovane hacker crea infinitamente più preoccupazioni al Sistema di
tanti pensatori, polemisti, artisti sulle barricate. Il primo, infatti, il
Sistema si affretta a guadagnarlo a sé dato che, laddove manca il senso
del Sacro, l’abiura è solo una questione di prezzo. I secondi
invece, noi due compresi, vengono lasciati sostanzialmente liberi di sproloquiare,
ma sempre nell’anonimia e coperti dal “rumore di fondo”
creato dai Media. Tutto questo, anzi, risulta utile per perpetrare la farsa
del pluralismo delle idee che, stando alla carta, dovrebbe essere un aspetto
fondante delle società occidentali. Un altro aspetto riguarda IL TEMPO,
fattore capitale del quale, non a caso, poco si parla. Si aggiunga pure l’inevitabilità
della competizione. Con questo stratagemma si è ottenuto, per esempio,
il controllo totale sulla stampa e sulla comunicazione. Perché reprimere
quando si può deregolamentare? Oggi la stragrande maggioranza dei giornalisti
sono free-lance e vengono pagati ad articolo e solo in caso di pubblicazione.
Il risultato è immediato: se il giornalista vuole campare dovrà
ingegnarsi a presentare solo articoli “pubblicabili”. Ciò
che rende un articolo pubblicabile non sono solo i contenuti, ma anche il
linguaggio. Mi spingo a dire che il nichilismo ha modo di manifestarsi attraverso
la spersonalizzazione dei contenuti, ma deve anche esercitare un controllo
costante del linguaggio.
Il problema è che, negli ultimi anni, molti hanno scritto del rischio
tabula rasa che la globalizzazione comporterebbe, ma pochi hanno compreso
a fondo la diabolica semplicità del meccanismo. Competere sul piano
delle idee, oggi, è solo un fatto d’amor proprio oltre che di
preservazione. In assenza di una cassa di risonanza adeguata le idee circolano
solo tra coloro che già le detengono. Eventuali nuovi arrivi, sovente,
non bastano neppure a riempire i vuoti lasciati dai tanti che, quasi sempre
per necessità, se ne chiamano fuori. Inutile anche sperare di contendere,
per un brevissimo lasso di tempo, una cellula di territorio come è
prassi degli insurrezionalisti. Personalmente credo che il nuovo fronte che
dovrebbe essere aperto dalla dissidenza sia di ordine “psichico”.
Una porzione rilevante degli attuali meccanismi di controllo si esercita nella
sfera psichica, emozionale, affettiva, temperamentale, linguistica, immaginativa.
Vi vengono investite risorse economiche enormi, ma è anche una “kampfzone”
dove la creatività, la spregiudicatezza, la vivacità intellettuale
di pochi può infliggere danni serissimi se si riescono a individuare
delle immancabili falle attraverso le quali inviare a segno i propri colpi.
12. Ha già progettato la prossima offensiva in cui verrà impegnata
la brigata IANVA? Su quale fronte avrà luogo?
Con ogni probabilità faremo uscire ancora un miniCD a sfondo “dannunziano” a ideale suggello e complemento della prima fase del nostro lavoro. A seguire va profilandosi un nuovo concept non più finalizzato alla narrazione di una singola vicenda, ma immaginato come un album di istantanee scattate in vari momenti del ‘900 Italiano. Ognuna di queste cattura un segmento di vissuto individuale nel contesto di un evento topico o comunque rilevante, se non decisivo, rispetto ai destini dell’intera comunità nazionale. Sono abbastanza certo che il contenuto di queste istantanee sorprenderà molti, anche ascoltatori che ci hanno seguito da subito.
13. L’intervista finisce qui. La ringrazio per la pazienza. Nel salutarLa
lascio a Lei l’ultima parola.
L’ultima parola non può che essere di ringraziamento e stima nei suoi confronti, sia per la bella intervista che per la pazienza dimostrata rispetto ai miei tempi di risposta certamente non fulmicotonici. Un arrivederci a presto a Lei e a tutti i lettori di O.C.
Il curatore della presente intervista desidera congedare il paziente
lettore offrendogli la possibilità di meditare sulle seguenti parole,
del filosofo Walter Benjamin:
«”Fiat
ars - pereat mundus”, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si
aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale
modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte
per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo
per gli dèi dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa.
La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il
proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Questo
è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo
persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte».